Intimisto, Racconti

Lettere per l’edificio 18.

Stavo lì a farmi raccontare, descrivere, spiegare.

Ascoltavo tutto l’elenco dei pregi, dei difetti camuffati, delle cose belle che lei faceva, di quanto era adorabile quando le faceva male, di quanto fosse un peccato che non mettesse a frutto al massimo il suo potenziale. D’un tratto, quel vuoto alla bocca dello stomaco tornò. Dimenticai gli orari, i numeri, il controllo del mio corpo. Un’ enorme tristezza si impossessò di tutta me stessa e mi portò giù. Ricordai tutto.

 Da quando ero tornata, avevo smesso di sentire. Avevo cominciato – di nuovo – a pesare, misurare, contare, calcolare, preoccuparmi che tutto fosse in ordine e secondo i miei piani; e la mia esistenza scorreva così, tra numeri intrusivi e calcoli ansiosi, senza che io avessi il minimo contatto con quella che Mr. C. diceva essere la mia vita. Diceva che sembrava che parlassi di me come di una persona altra.

 Che cosa avessi paura di sentire, di ricordare, lo sapevo molto bene; e adesso – tutto d’un botto – era tornato a cadermi addosso, senza preavviso né tatto, come se avessi aperto un armadietto stracolmo e il contenuto stesse cadendo su di me immobile.

 Quello che avrei voluto – lo sentii subito – era che qualcuno parlasse di me a quel modo.

Avrei voluto che qualcuno, seduto a una panchina con un amico, un’amica o una persona appena conosciuta, elencasse i miei pregi (quelli che ai suoi occhi erano infiniti pregi) e i miei buffi difetti come se fossero in fondo prolungamenti dei precedenti. Che diventasse rosso, con gli occhi e le labbra stampati in un sorriso ebete e che solo all’idea di rievocare la mia esistenza sulla Terra il suo cuore si riempisse, le sue mani diventassero nervose e lui fosse felice. Insomma, che mi amasse.

Eppure, al primo accenno di quella possibilità ero sempre fuggita. L’idea di sentirmi così toccata, così esposta, così considerata da qualcuno mi gettava nell’angoscia più totale. Non volevo affatto esistere a tal punto.

E adesso, che cercavo di tornare alla vita e lo facevo inevitabilmente prendendo contatto con le cose più atroci e dolorose, questa cosa che desideravo e insieme temevo mi sembrava ormai lontana, impossibile. Non vedevo alcuna possibilità di riscatto per me da quella che era ormai diventata una solitudine così violenta e intollerabile da avermi costretta a rifugiarmi di nuovo nei calcoli.

Tuttavia, quel giorno, presi una decisione grave, radicale e spaventosa. Presi un foglio e una penna e scrissi una lettera che pensavo avrebbe cambiato il corso della mia vita.

 “Cara Lucia,

ti scrivo questa lettera per dirti che ho deciso di lasciare questo posto.

Ti prego di non scoppiare a piangere, di non bagnare il foglio con le tue lacrime, di non stropicciarlo con le tue mani ossute, di non urlare, strepitare, battere i piedi per terra, tagliarti la pelle, saltare il pasto o procurarti il vomito.

Ti sto abbandonando, Lucia, è vero, ma tu devi imparare ad accettarlo.

Questo posto, tutto bianco – con le pareti rosa salmone – è disegnato come se fosse una campana di vetro, un’oasi felice in cui niente di ciò che è esterno ci può toccare.

Voglio dirti una cosa, e cioè che questo disegno è tutto una bugia.

Anche qui dentro, come vedi, ci sono persone che ti abbandonano a te stessa.

La cosa peggiore che dovrai imparare è che tu devi riuscire a reggerlo, perché accadrà ancora, accadrà sempre e accadrà ovunque, anche qui dentro.

E mentre io sarò sempre pronta a leggere le tue lettere, a rispondere ai tuoi richiami e ad ascoltare le tue richieste, tante altre volte tutto questo non ci sarà e troverai davanti a te un silenzio duro e privo di aperture.

Ti è concesso di piangere, ma non dovrai più tornare in questo posto.

Proteggerti da tutto non ti permetterà mai di evitare totalmente il contatto perché evitare l’angoscia non è possibile a nessun uomo. E poco importa se tu, cara Lucia, senti di essere progettata per sentirne di più e più profondamente e per reggerne di meno. Non esistono delle agevolazioni per chi sente più degli altri.

Resta dove sei perché nessun luogo è davvero migliore della tua vita, e la morte che tu stai inscenando così bene non ti darà niente di ciò che speri di ottenere.

 Non ti succede niente se mangi quell’oliva che hai lasciato nel piatto, Lucia. Non ti distruggerà. E’ la vita, quella, e la vita non è qualcosa da cui tu debba proteggerti.

Devi imparare a sentire la carne che cresce: piena, viva, sguaiata e scomposta. E’ così che è la vita. Non è mica bianca, luminosa e disinfettata come questa stanza.

 So che adesso non vedi nulla di ciò che ho detto. Le mie parole sono solo linee sfocate per i tuoi occhi pieni di lacrime, per le tue orecchie sorde a ogni invito al cambiamento, per le tue gambe pronte a scattare e camminare su e giù per tutto l’ospedale.

Eppure io so che tu non sei proprio questo esserino gracile, arrabbiato e pronto ad aggredire che mi sta urlando contro mentre mi vede allontanarmi all’orizzonte.

Mi ricordo che c’era un tempo in cui sognavi di fare delle cose e in cui lasciavi che qualcuno ti toccasse. Senza scattare. Semplicemente, restavi dov’eri. Devi restare dove sei. Se tu stai ferma, la tempesta ti bagna meno e prima o poi finisce. Non la puoi evitare.

 Mi dispiace, ma non c’è scelta.”

 Che poi, però, la lettera non l’ho ancora consegnata al mittente.

La vedo sempre, nel corridoio del 18. L’ultima volta le dicevano che somigliava molto al padre negli atteggiamenti, e lei si risvegliava da un torpore spento, sorrideva discreta e curiosissima e vanitosa domandava il perché e il per come della somiglianza notata. Sorrideva, ma era come se non si accorgesse di farlo.

Io spero sempre di poterle consegnare la mia lettera, di potermi sedere dall’altra parte, dalla parte dei saggi e dei salvatori.

 Ma a quanto pare non sono ancora credibile abbastanza.

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